Parliamo di plastica: il polietilene

DiMassimo Rossani

Set 5, 2012

Non molti di noi lo sanno, ma può essere interessante svelare che molto spesso, quando diciamo “plastica”… ci stiamo riferendo al polietilene, o politene, che si abbrevia di solito con la sigla PE. Con una produzione annuale di ben ottanta milioni di tonnellate, infatti, il polietilene è di certo il tipo di materiale plastico più diffuso al mondo. Viene utilizzato prevalentemente per realizzare una grande varietà di svariati tipi di confezioni, dalle borse di plastica, alle pellicole, a svariati tipi di contenitori come le bottiglie. Sebbene esistano molte diverse varietà di polietilene, quasi tutte condividono la formula chimica di base, essendo costituite da lunghissime catene polimeriche di C2H4, e l’origine: il tanto diffuso e importante polietilene fu infatti inventato per errore.

Era infatti il 1898, e un chimico tedesco, di nome Hans von Pechmann, era nel suo studio, intento a riscaldare del diazometano. Per incidente, ottenne una strana sostanza bianca e di consistenza cerosa, che i suoi colleghi, Eugen Bamberger e Friedrich Tschimer, analizzarono scoprendola composta di lunghe catene di -CH2-, dandole il nome di Polimetilene.

La prima tecnica di sintesi praticamente applicabile in campo industriale del polietilene fu però scoperta ben trentacinque anni dopo, in Inghilterra: ma anche qui, si trattò di un disguido. Lavorando alla ICI, Eric Fawcett e Reginald Gibson ritrovarono, dopo avere sottoposto ad elevatissima pressione una mistura di etilene e benzaldeide, una sostanza bianca e cerosa – la stessa di von Pechmann. Tuttavia, ad avere causato tale risultato era stata un’accidentale infiltrazione di ossigeno, e per lungo tempo fu difficoltoso replicare l’esperimento.

Ci vollero due anni perchè Michael Perrin, un diverso chimico impiegato all’ICI, riuscisse a capire come poter riprodurre a piacimento la procedura, e altri quattro perchè venisse ufficialmente avviata la produzione industriale del Polietilene. Ma le sue vicissitudini non erano ancora finite: durante la seconda guerra mondiale, ne vennero scoperte le caratteristiche schermanti dei segnali radio, e l’esercito inglese ne impose la segretezza, lo ritirò dal commercio, e lo impiegò per la schermatura e l’isolamento dei cavi dei radar. Successivamente, nel ’44, la produzione riprese, ora anche negli Stati Uniti, sempre con licenza ICI. Tuttavia, la grande scoperta che tutti cercavano, un modo per ottenere il polietilene a temperature e pressioni meno proibitive, arrivò solamente negli anni ’50, con l’utilizzo di nuovi catalizzatori, e lo sviluppo dei due metodi principali di lavorazione, lo Ziegler, in Germania, con parametri ribassati e semplicemente raggiungibili, e il Phillips, più economico e facile da governare.

Disgraziatamente, pur essendo versatile e diffuso, il polietilene non è esente da problemi. Il più grave è forse costituito dal fatto che non è biodegradabile, e quindi si accumula indefinitamente, generando gravi problemi di contaminazione. Un Paese che vive profondamente questo tipo di problema è il Giappone, in cui la soluzione dell’inquinamento da plastica è stata catalogata come un possibile mercato da 90 miliardi di dollari. Una speranza, di recente, è venuta in tal senso dalla scoperta affascinante di un sedicenne Canadese, Daniel Burd, che ha scoperto come due batteri siano in grado di smaltire più del 40% della massa delle borse di plastica in un tempo inferiore a tre mesi.

Di Massimo Rossani

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